
Huawei diventa il primo contributor del kernel Linux per numero di changeset (1434 nella release 5.10), e il secondo per numero di righe di codice (41049) subito dopo Intel.
L’attesa. Noi italiani l’abbiamo introiettata senza rimedio, tramandandola di generazione in generazione, tra treni regionali in ritardo (probabilmente by design) e cantieri eternamente aperti.
Così, altro che indignarci: non riusciamo neppure a stupirci dell’ennesimo disservizio che puntuale come una condanna accompagna il lancio di ogni iniziativa in salsa digitale. E questo nonostante il dato tecnico che oggi sia più difficile progettare e realizzare un servizio non “scalabile”, che cioè non riesce a gestire come si deve i famigerati “picchi”, anziché il suo contrario: la riproduzione digitale della coda allo sportello. Montagne di denaro pubblico spese nel tentativo anacronistico di costringere alla serialità, all’uno-alla-volta, la sterminata rete di dispositivi in cui viviamo e che se non la ingabbiassimo in modalità contronatura sarebbe di per sé portata al multitasking, al parallelismo, alla dinamicità.
E così la disfunzione, il disservizio, il “riprova più tardi”, conditi spesso da vaporosi inviti alla pazienza degni di un Beckett che gli addetti alla comunicazione e i virtuosi della user experience dispensano sulle piattaforme stesse e sui social, sono la firma e il coronamento di ogni sforzo di digitalizzazione di Stato.
In fondo però non sono gli errori tecnici a rendere così fragile la digitalizzazione all’italiana, non è il vizio endemico nella nostra pubblica amministrazione di calare le braghe davanti all’onnipotenza dei fornitori, con questi ultimi protagonisti di un incredibile gioco di scatole di cinesi di appalti e subappalti che finisce per mettere pezzi strategici dell’infrastruttura cibernetica nazionale in mano a gente poco qualificata o peggio ancora malintenzionata (si veda l’affaire Leonardo di qualche giorno fa), non è neppure la deresponsabilizzazione assurta a misura delle cose, né i progetti che vedono la luce pieni di debito tecnico, già obsolescenti, perché così si lascia un addentellato per nuove commesse,
No, il problema di fondo è la carenza di una cultura della governance della trasformazione digitale, l’incapacità dello Stato di pensare in maniera sistemica, in un Paese in cui l’innovatore è immaginato come un incrocio tra l’idiot savant che si trastulla con droni e stampanti 3D (e non sa dar conto di ciò che fa) e il guru dalla favella oracolare. L’uno e l’altro, io sospetto, tentativi nemmeno troppo malcelati di rimuovere un pensiero scomodo: il sospetto che, dopo tutto, un mondo che corre sempre più in fretta ci ha lasciati indietro. Definitivamente.
Ma ancora più profondamente a me sembra che si nasconda un problema ancora più grave. Mi riferisco alla mancanza di onestà intellettuale di una classe dirigente che partorisce di continuo politiche di digitalizzazione passivo-aggressive, che si preoccupa di far crescere l’indicatore del momento (oggi sono i download di una nuova app di Stato e il numero di identità digitali rilasciate, ieri erano il numero di computer per scuola e le ore di informatica) o peggio confonde i piani (digitalizzazione come società della sorveglianza) anziché sforzarsi di proporre una visione, un’idea condivisibile e condivisa sulle priorità dello sviluppo, la direzione da prendere, gli scenari in cui muoverci.
Paul Tucker, già vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, nel suo Unelected Power si interroga sul ruolo e sulla legittimazione di soggetti pubblici non espressi dalla volontà elettorale e sulle loro agende, portate avanti in un gioco di equilibri con il potere politico che da tempo ha imparato a usare a proprio vantaggio la loro indipendenza.
In Italia la digitalizzazione pubblica, affidata variamente ad agenzie e ministri senza portafoglio, senz’altro di buona volontà ma privati dei mezzi di agire, ha bisogno di politicizzarsi e depoliticizzarsi nello stesso tempo: cioè deve da un lato affrancarsi dal ruolo che ha adesso, di merce di scambio e specchietto per le allodole per una politica che l’ha sempre sbandierata per sbarazzarsene più in fretta, dall’altro dare un colpo d’ala e prendere coscienza che essa è anzitutto, anzi prima di ogni altra cosa, cura della polis.
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